Marco Ghizzoni torna in libreria con “Il muro sottile”

Dieci racconti, dieci storie di persone che si ritrovano ad affrontare il dolore in forme diverse. Un viaggio alla scoperta dell’importanza del saperlo affrontare ed accettare come una parte ineluttabile della vita.

A metà novembre 2020 ha visto la luce il nuovo libro di Marco Ghizzoni ‘Il muro sottile’, una raccolta di dieci racconti edito da Oligo editore, una giovane ma promettente casa editrice di Mantova.

Questo lavoro segue ai quattro romanzi attraverso i quali l’autore ha dato un timbro personale alla sua scrittura, dando vita a personaggi impegnati a divincolarsi in storie che, non senza ironia e teatralità, hanno fatto emergere buona parte le debolezze, dei difetti e degli eccessi che la natura umana ci offre.

Questa opera invece è composta da dieci, storie scritte in tempi diversi e poi riposte nel cassetto, dieci ‘brevi spartiti’ che Marco Ghizzoni ha riscoperto e rivalutato nel loro complesso facendone un’opera completa legata da un’unica chiave di violino, un’unico comune denominatore: il dolore, in tutta la sua drammaticità, in tutte le sue forme e l’uomo, tanto per cambiare, a far da vettore.

Chissà quanti dei lettori che seguono l’autore si ritroveranno spiazzati ed allo stesso tempo incuriositi da questa svolta letteraria, comunque sia son certo che la maggior parte resteranno piacevolmente colpiti dalla capacità di Ghizzoni di adattarsi ad un nuovo stile di scrittura e di narrazione.

La prima lettura completa è stata un po’ come la corsa sui ‘carboni ardenti’ di chi sente il fuoco ancor prima di affrontarlo. Mentre la seconda ha sollevato in me molte domande e riflessioni, che voglio condividere con l’autore.

Devo ammettere che a causa del momento che stiamo vivendo,  non è stato facile leggere una raccolta di racconti il cui filo conduttore fosse il dolore. Poi una volta aperto il libro ho capito che più che dieci racconti si trattasse di dieci tappe di un vero e proprio viaggio alla scoperta del significato e dell’importanza di saperlo affrontare. Cosa ti ha portato a decidere di pubblicare un libro di racconti su un argomento cosi scomodo?

“I primi cinque racconti sono nati quasi per caso, nel corso di cinque o sei anni, senza alcuna velleità di rientrare in una qualche raccolta né, tantomeno, di essere pubblicati. Da grande lettore di racconti, avevo voluto anch’io cimentarmi con la narrazione breve in più riprese, ma preso com’ero dai miei romanzi, ci avevo dedicato poco tempo e poca convinzione; poi, nella primavera del 2019, stavo dando un’occhiata ad alcuni file nel mio computer e mi sono imbattuto in questi racconti: rileggendoli, mi sono reso conto che erano tutti “magicamente” legati tra loro da questo tema ricorrente del dolore. Li ho ripresi in mano e, al ritmo di uno alla settimana, sono nati gli altri cinque (inseriti nella raccolta in rigoroso ordine cronologico di stesura), e la conseguente idea di racchiuderli in un libro.”

In questa tua nuova esperienza hai scelto di farti pubblicare da Oligo editore, una giovane casa editrice indipendente di Mantova. Da cosa è dovuta questa tua scelta e quanto ti è stato utile in questa tua nuova avventura?

“Conoscevo Oligo editore per il prestigio delle sue pubblicazioni (Piumini, Schneider, Biondi, Trevisan) e Davide Bregola (direttore della collana Oro all’interno della quale è stato inserito Il muro sottile), per il quale nutro molta stima, come scrittore di alto livello e come consulente editoriale dalla carriera ventennale, pertanto non ho avuto dubbi: gli ho mandato i racconti e, nel giro di poche settimane, ho firmato il contratto. Era, ed è, la giusta casa editrice per questo libro così distante dai miei standard, non solo per misura narrativa, ma anche per poetica e stile; l’editoria indipendente è l’unica che ancora si permette il rischio di osare e di non inquadrare gli autori all’interno di schemi rigidi e prefissati, che ragiona sul testo prima che sui numeri. Lavorare con loro mi ha riportato all’emozione degli inizi: è come se si fosse trattato di un nuovo esordio.”

Dal romanzo al racconto. Un cambio di forma, ma anche e sopratutto un cambio di stile di narrativo e di linguaggio. In un contesto editoriale e culturale in cui il racconto non ha un grande mercato, quali sono le motivazioni che ti hanno portato ad accettare questa nuova sfida?

Avevo bisogno di sperimentare una nuova chiave di lettura della realtà, affidarmi alla scrittura verticale del racconto per poter andare a fondo, concentrarmi sull’attimo, sul cambiamento, che porta un essere umano sul fondo del baratro o a salvarsi per un pelo. Il romanzo non può darti questo, c’è troppa materia narrativa da gestire e dipanare, troppi personaggi, troppi momenti da equilibrare.”

Uno scrittore è per antonomasia anche ‘un buon lettore’ e questo in un certo senso ‘contamina’ il suo modo di scrivere. A proposito di racconti ci sono degli autori che apprezzi in particolare modo?

“Io sono prima di tutto un lettore, vorace, onnivoro, e dedico molto più tempo alla lettura che alla scrittura. Se parliamo di racconti e di maestri di questa forma narrativa, non posso che citare Kafka, Cechov, Keller, Joyce e Poe tra i classici, e Giulio Mozzi, Etgar Keret, George Saunders, Raymond Carver, Amy Hempel, Vincenzo Pardini, Vitaliano Trevisan e Piero Chiara tra i moderni e contemporanei. Una menzione speciale la riservo a Giovanni Arpino – noto per i suoi romanzi, ma eccelso e sottovalutato autore di racconti brevi di abbacinante bellezza – e Roberto Piumini, celebre per i suoi libri per l’infanzia, ma altrettanto sensazionale quando si tratta di indirizzare la sua scrittura poetica, garbata, lieve e estremamente evocativa a un pubblico adulto. È senza dubbio uno dei miei scrittori preferiti, lo leggo dall’età di otto anni.”

Una delle cose che apprezzo del racconto è la sua brevità, nella quale vi è una concentrazione di descrizioni, emozioni e reazioni. Ne deriva una lettura che potrei paragonare al dare il giusto tempo e pregio ad  un buon bicchiere di buon vino. Quali sono le caratteristiche e gli ingredienti per rendere piacevole ed unico un racconto?

“Credo tu abbia centrato il bersaglio: descrizioni, emozioni e reazioni, a cui aggiungo le azioni e le figure umane, devono essere concentrate, sfolgoranti, immediate, pur se la forma è spesso più rarefatta rispetto a quella di un romanzo. Come ho detto prima, bisogna cogliere il cambiamento, l’epifania, il momento in cui il personaggio ha uno scatto, non importa in quale direzione. Se il romanzo ha un climax, il racconto deve mantenere una tensione – non importa se a alto o basso voltaggio – costante. Dipende da ciò che si vuole rappresentare.” 

Ogni racconto della tua raccolta rappresenta il dolore in un contesto ed in una forma differente. Nel complesso risalta la sua costante presenza nella nostra quotidianità perché comunque essenziale stimolo alla vita ed alla sopravvivenza.  Dopo aver scritto e pubblicato questo libro, qual’è la tua ‘verità ultima’ che ne hai dedotto?

“L’ultima, che poi è già la penultima non appena ne prendi coscienza, è che esistono molteplici forme di dolore, ma soprattutto, esiste anche la sua assenza. Forse, la forma più straziante di tutte, perché spinge molte persone a una costante ricerca a 

Alcuni racconti sono scritti in prima persona ed altri in terza, quali sono i fattori che determinano la scelta e quali sono le differenze che ne derivano?

La soggettività e l’oggettività, affinché io, e di conseguenza il lettore, possa scegliere se immedesimarsi o prendere le distanze, poiché non è vero che una storia debba sempre coinvolgere, a volte può anche repellere, soprattutto quando si parla di violenza e soprusi. La lettura e la scrittura devono anche essere un modo per guardarci dall’esterno, attraverso un altro punto di vista che non sia sempre il nostro.”

Ne ‘I figli invisibili’ hai preso spunto dalla ‘recente’ guerra dei Balcani, che a malapena trova spazio nei libri di storia ed è già stata archiviata nella polverosa  memoria della maggior parte delle persone non coinvolte in prima persona. Un conflitto che ha lasciato pericolose ed insanabili ferite ancora aperte sul piano sociale e religioso più che politico. Questo racconto, che non ti nascondo di aver ‘respinto’ in un primo momento, provoca un senso di abbandono e di dolore psicofisico viscerale. Ma proprio attraverso  l’ accettazione e la condivisione della sofferenza che ne deriva, i protagonisti riusciranno a dare un senso alla loro vita ed al loro futuro. Una bellissima storia di denuncia e di speranza, com’è nata l’idea di scriverlo?

“Spesso è proprio ciò che ci respinge ad attrarci di più in un secondo momento, che è poi quello decisivo. Il racconto è ispirato a una storia vera, quella di due dei tanti figli delle violenze sessuali perpetrate dai soldati sulle donne bosniache, chiamati “figli invisibili” perché abbandonati dalle madri, rifiutati dalla società e dimenticati da tutti. Ecco, questo credo sia l’apice del dolore: da una parte una donna che cerca di accettare il frutto di uno stupro – l’essere umano a cui darà vita e che amerà più di se stessa le impedirà di dimenticare l’esperienza più traumatica di tutte –, dall’altra un bambino rifiutato o non accettato fino in fondo, che non saprà mai darsi una risposta.”

L’ultima volta’ è un racconto in cui ci si potrebbero rispecchiare molte donne che subiscono quotidianamente violenze psicofisiche ed è anche un esempio a come il dolore e la sofferenza possano portare anche le persone apparentemente più confuse ad agire con una freddezza inaspettata. Pensi che sia più facile fare riflettere un lettore su una problematica attraverso un racconto breve e diretto piuttosto che un romanzo?

“Penso sia più facile far riflettere il lettore fornendogli una chiave di lettura diversa delle possibilità: se ci raccontano sempre la stessa storia, finiamo per credere che sia l’unica possibile. Invece, non è così.”

 Non so’ come sia stato scelto l’ordine di pubblicazione dei racconti nel libro, ma per qual che mi riguarda  ‘La corsa di Maral’ ne è la degna chiusura, sopratutto per  il messaggio di speranza che questa giovane ragazza persiana rappresenta per tutti i giovani senza distinzione culturale, geografica e religiosa. L’impressione è che alcuni racconti siano una finestra sul mondo, mentre in altri sia l’esatto contrario, una finestra che da su una stanza regalando sensazioni totalmente diverse. Hai da suggerirmi un motivo per cui non bisognerebbe mai perdere la capacità di scrivere racconti?

“La tua impressione è corretta. Guarda, mi concedo una citazione di uno dei grandi scrittori citati in precedenza, George Saunders: “I racconti parlano a quei momenti transitori in cui vediamo la vita nel modo più chiaro, ma senza dare facili risposte. Mentre i romanzi sembrano portarsi addosso il peso dell’interpretazione, i racconti sono come quell’amico che prima ti dice la verità, e poi fa una scrollata di spalle.”

Cosa ha dato questa esperienza a Marco Ghizzoni scrittore?

Mi ha aperto un nuovo e diverso orizzonte narrativo, la consapevolezza di poter esplorare diverse sfumature della mia scrittura, e la possibilità di affrontare di petto il dolore anziché deriderlo, come faccio nei romanzi. Sono due esperienze diverse, ma l’una non esclude l’altra, anzi, si completano.”